Il doppio standard dell’invecchiamento
La convenzione sociale per cui invecchiare dona agli uomini ma sciupa pian piano le donne è uno strumento di oppressione. Per emanciparsi, bisogna trasgredire questa convenzione.
Traduzione di un articolo di Susan Sontag dal titolo The double standard of ageing pubblicato su The Saturday Review il 23/09/1972
“Quanti anni hai?” la persona che rivolge questa domanda potrebbe essere chiunque. A rispondere è una donna, una donna “di una certa età” come dicono discretamente i francesi. Questa età può andare dai venti appena compiuti ai cinquant’anni pieni. Se la domanda è impersonale — informazioni di routine necessarie per la richiesta di una patente o un passaporto o una carta di credito — si sforzerà di rispondere la verità.
Compilando un modulo di licenza di matrimonio, se il futuro marito è anche di poco più piccolo di lei, potrebbe mentire e dire di avere qualche anno in meno; o forse no. Nella ricerca di un lavoro, le possibilità di assunzione dipendono in parte dall’avere “l’età giusta”: se l’età non è giusta, mentirà nel caso in cui le è possibile cavarsela.
Prenotando il primo appuntamento da un nuovo dottore, sentendosi magari particolarmente vulnerabile al momento della fatidica domanda, probabilmente si affretterà a dare una risposta corretta. Tuttavia, se la domanda è personale, se cioè le viene posta da un nuovo amico, una conoscente, il figlio di un vicino o da una collega in ufficio, in fabbrica o in un negozio, la risposta è più difficile da prevedere. Potrebbe scansare la domanda con una battuta o rifiutarsi di rispondere con giocosa indignazione: “Non lo sai che non si chiede l’età a una signora?”. Oppure, esitando per un momento, potrebbe dire la verità, imbarazzata ma insolente. Oppure potrebbe mentire. Ma né la verità, né l’evanescenza, né le menzogne sono in grado di alleviare la spiacevolezza di quella domanda.
Per una donna essere obbligata a dichiarare i suoi anni, dopo una “certa età”, è sempre un calvario in miniatura. Se la domanda proviene da un’altra donna, si sentirà meno minacciata rispetto al caso in cui la stessa provenga da un uomo. E in effetti, le altre donne sono nostre compagne perché condividono la medesima eventualità di umiliazione. Sarà meno maliziosa, meno riservata. Ma potrebbe ugualmente infastidirsi nel dare una risposta: potrebbe, quindi, non dire la verità.
Formalità burocratiche a parte, chiunque ponga a una donna questa domanda, dopo “una certa età”, sta ignorando un tabù e si rivela con ogni probabilità un po’ maleducato, se non del tutto in mala fede.
Più o meno tutti riconoscono che una volta che una donna ha oltrepassato gli anni della giovinezza, la sua età cessa di essere bersaglio legittimo della curiosità altrui. Dal momento in cui non è più una ragazzina, l’età di una donna diventa un’informazione confidenziale, la sua proprietà privata, una sorta di segreto sudicio e volgare. E rispondere il vero è sempre un atto indiscreto.
Il disagio che una donna prova ogni volta che confessa la sua età è qualcosa di diverso dall’ansiosa consapevolezza della mortalità umana che tutti provano, di tanto in tanto. E in un certo senso nessuno, né uomo né donna, ha piacere nel sapere che invecchierà: dopo i trentacinque anni, qualsiasi riferimento all’età di qualcuno porta con sé il promemoria di essere più vicini alla fine della vita che al suo inizio.
E in questo tipo di ansia non c’è nulla di irragionevole, né esiste anormalità nell’angoscia e nella rabbia delle persone molto anziane, di settanta o ottant’anni, riguardo l’inesorabile calo della propria forza fisica e mentale. L’età avanzata è allora innegabilmente una transizione riprovevole, non importa quanto stoicamente possa essere sopportata, un naufragio certo, a prescindere dal coraggio con il quale gli anziani insistono nel voler continuare la navigazione.
Ma l’oggettivo e sacro dolore della vecchiaia è di natura diversa dalla sofferenza soggettiva e profana dell’invecchiamento. La vecchiaia è un autentico travaglio, che donne e uomini sperimentano in maniera simile. Invecchiare è, invece, soprattutto un travaglio dell’immaginazione — una malattia morale, una patologia sociale — e gli è intrinseco il fatto che affligge più le donne che gli uomini. Non a caso, sono proprio le donne che fanno esperienza dell’invecchiamento (ossia: di tutto ciò che succede prima che qualcuna si affettivamente anziana) con incredibile e disgustato imbarazzo.
I privilegi emotivi che la nostra società attribuisce alla giovinezza provoca, in tutti, un po’ di ansia all’idea di invecchiare. Tutte le moderne società urbanizzate — a differenza delle società tribali e rurali — trattano infatti con sufficienza i valori della maturità e fanno invece il conto dei celebri vantaggi della giovinezza. Questa rivalutazione del ciclo della vita a favore dei giovani è perfettamente al servizio di una società laica i cui idoli sono una produttività industriale in costante aumento e un’illimitata cannibalizzazione della natura. Una società di questo tipo assegna un nuovo senso ai ritmi di vita per poter indurre le persone a comprare di più, a consumare di più e a smaltire e gettar via il più in fretta possibile. Le persone permettono che la consapevolezza diretta dei propri bisogni e di ciò che davvero è per loro piacevole sia oggetto di prevaricazione da parte di immagini pubblicitarie di felicità e benessere personale; e in questa fantasia ideata per suscitare livelli di consumo ancora più elevati, la metafora più popolare per indicare la felicità è: la giovinezza. (Insisto nel dire che è una metafora, non una descrizione da prendere alla lettera. La giovinezza è una metafora per indicare uno stato di energia, di mobilità instancabile, di appetiti: è, in fondo, una metafora del desiderio.) Questo far corrispondere il benessere alla giovinezza rende tutti assillantemente consapevoli dell’età propria e altrui.
Nelle società primitive e premoderne le persone conferivano molta meno importanza alle cifre. Quando le vite erano suddivise in lunghi periodi con responsabilità stabili e ideali (e ipocrisie) stabili, l’esatto numero di anni di vita di qualcuno diventava un fatto di poca importanza; e c’era difficilmente un motivo valido per sapere o fare riferimento all’anno in cui qualcuno era nato. Molte persone in società non industriali non sono sicure di quanti anni hanno.
Le persone nelle società industriali sono invece tormentate dai numeri e nutrono un interesse ossessivo nel tenere il conto dei punti sulla patente dell’invecchiamento, convinti che chiunque sopra una cifra abbastanza bassa sia da compatire.
In un’epoca in cui le persone vivono effettivamente sempre più a lungo, i restanti due terzi della vita di tutti sono adombrati dalla profonda apprensione di una sconfitta continua. In una certa misura la prestigiosa reputazione della giovinezza affligge tutti quanti nella nostra società. Anche gli uomini sono inclini a periodici attacchi di depressione in relazione all’invecchiamento, per esempio quando si sentono precari, poco realizzati o insufficientemente ricompensati nel lavoro che svolgono. Eppure, gli uomini raramente vanno nel panico pensando alla vecchiaia, cosa che invece alle donne capita spesso. Invecchiare, per un uomo, è svilente in una maniera meno profonda perché, oltre alla propaganda pro-giovinezza che mette donne e uomini sulla difensiva mano a mano che avanzano con l’età, esiste anche un doppio standard sull’invecchiamento che stigmatizza le donne con particolare durezza. La nostra società è infatti molto più permissiva riguardo all’invecchiamento negli uomini, esattamente come è più tollerante rispetto all’infedeltà coniugale dei mariti: agli uomini è permesso invecchiare, senza per questo trovarsi penalizzati, e in modi così diversi che risultano però inaccessibili alle donne.
E questa stessa società offre ancora meno ricompense all’invecchiamento femminile che non a quello maschile. Essere fisicamente attraente conta infatti molto di più nella vita di una donna che in quella di un uomo; ma la bellezza identificata, per le donne, con la giovinezza, non regge ai colpi dell’invecchiamento. Competenze intellettuali straordinarie possono aumentare con l’età, ma le donne sono raramente incoraggiate a coltivare la loro intelligenza al di sopra di standard dilettanteschi. E poiché la saggezza considerata appannaggio speciale delle donne è “eterna e immutabile”, una conoscenza delle emozioni antica e intuitiva, completamente estranea a un vasto repertorio di fatti, esperienze mondane e metodi di analisi razionale, vivere a lungo non promette alle donne nemmeno un aumento di saggezza. Le competenze private che ci si aspetta dalle donne sono esercitate fin da subito e, a eccezione del talento nel sesso, non tendono a incrementare con l’esperienza.
La “mascolinità” si identifica invece con abilità, autonomia e autocontrollo, qualità che la scomparsa della giovinezza non minaccia; e la competenza nella maggior parte delle attività che ci si aspetta dagli uomini (esclusa l’attività fisica) aumenta con l’età. La “femminilità” si identifica invece con l’incompetenza, la debolezza, la passività, la mancanza di competizione, la gentilezza, e l’età non migliora queste qualità.
Gli uomini della classe media si sentono sviliti dall’invecchiamento, anche se ancora giovani, quando non hanno ancora dato prova di eccellenza nella loro carriera o non hanno guadagnato molto, e la tendenza che mostrano verso l’ipocondria peggiorerà con la mezza età, concentrandosi con particolare nervosismo sulla minaccia dell’infarto e della perdita di virilità. La crisi relativa all’invecchiamento è legata, negli uomini, a quella terribile pressione a essere “di successo” che definisce con precisione la loro appartenenza alla classe media.
Le donne, invece, raramente sono ansiose per via della loro età perché non hanno avuto successo in qualcosa. Il lavoro che le donne svolgono al di fuori delle mura domestiche raramente conta come una forma di realizzazione: è solo un modo per guadagnare; e la maggior parte dei posti di lavoro a loro disponibili sfrutta principalmente la formazione che hanno ricevuto fin dalla prima infanzia, e che le porta a essere servili, di supporto, parassitarie e poco avventurose. Possono svolgere nell’industria leggera lavori umili e poco qualificati, che offrono una possibilità di successo tanto infima quanto l’essere una donna delle pulizie. Possono essere segretarie, impiegate, addette alle vendite, domestiche, assistenti di ricerca, cameriere, assistenti sociali, prostitute, infermiere, insegnanti, centraliniste: trasposizioni pubbliche dei ruoli di assistenza e nutrimento che le donne ricoprono nella vita familiare.
Le donne ricoprono pochissimi incarichi esecutivi, raramente sono ritenute adatte a grandi responsabilità aziendali o politiche, e formano solo un piccolo contingente nelle professioni intellettuali (a parte l’insegnamento). Sono praticamente escluse dai lavori che prevedono un rapporto profondo ed esperto con le macchine o con un impiego aggressivo del corpo, o che comporti un qualsiasi rischio fisico o spirito di avventura. I lavori che questa società ritiene appropriati per le donne sono attività ausiliarie, tranquille, che non competano con, ma che siano di supporto a quello che fanno gli uomini. Oltre a essere meno ben pagato, la maggior parte delle donne lavoratrici ha un tetto di avanzamento più basso e che dà accesso a ben magre soddisfazioni in relazione al desiderio (comprensibile) di essere influenti. Tutto il lavoro di natura eccezionale che le donne svolgono è assistenziale; la maggior parte delle donne sono infatti troppo inibite dalla disapprovazione sociale connessa all’essere ambiziose e aggressive.
Inevitabilmente, allora, risultano esentate dal cupo panico degli uomini di mezza età i cui “successi” sembrano trascurabili, con la sensazione di essere bloccati nella propria carriera e col timore di essere eclissati da qualcuno più giovane. Ma sono anche escluse dalla maggior parte delle vere soddisfazioni, che agli uomini derivano da lavoro — soddisfazioni che, spesso, aumentano con l’età. Il doppio standard sull’invecchiamento si presenta poi più brutalmente nelle convenzioni sull’attrazione sessuale, che presuppongono una disparità tra uomini e donne che opera permanentemente a svantaggio delle donne. Nell’accettato corso di eventi a cui va incontro una donna, dalla sua tarda adolescenza fino alla metà degli suoi vent’anni ci si aspetta che attiri un uomo che abbia più o meno la sua età. (Idealmente, dovrebbe essere almeno un po’ più vecchio). Ci si aspetta poi che si sposino e crescano una famiglia. Ma se il marito inizia una relazione extraconiugale dopo alcuni anni di matrimonio, lo fa abitualmente con una donna molto più giovane di sua moglie.
Supponiamo che quando sia il marito che la moglie siano già alla fine dei loro quaranta o all’inizio dei cinquanta, divorzino. Il marito ha un’ottima possibilità di sposarsi di nuovo, probabilmente con una donna più giovane. La sua ex moglie ha invece difficoltà a risposarsi. Attirare un secondo marito più giovane di lei è improbabile; anche per trovare qualcuno della sua età deve essere fortunata, e probabilmente dovrà accontentarsi di un uomo notevolmente più vecchio di lei, che abbia sessanta o settant’anni. Le donne diventano sessualmente irrilevanti molto prima degli uomini. Un uomo, anche un uomo brutto, può rimanere desiderabile durante vecchiaia: è un compagno accettabile per una donna giovane e attraente.
Le donne, anche di bell’aspetto, diventano invece indesiderabili a un’età molto più bassa, a meno che non siano partner di uomini molto anziani. Così, per la maggior parte delle donne, l’invecchiamento significa un processo umiliante di graduale squalificazione sessuale. Dal momento che le donne sono considerate massimamente desiderabili durante la giovinezza, dopo la quale il loro valore sessuale diminuisce costantemente, anche le più giovani sono impegnate in una corsa disperata contro il calendario: diventano vecchie non appena non sono più giovanissime. Nella tarda adolescenza, infatti, alcune ragazze già si preoccupano del matrimonio.
Ragazzi e giovani uomini non hanno motivo di anticipare le difficoltà relative all’invecchiamento: ciò che rende gli uomini desiderabili per le donne non è affatto legato alla gioventù. Al contrario, per diversi decenni invecchiare tende a operare a favore degli uomini, dal momento che il loro valore come amanti e mariti è determinato più da ciò che fanno che da come sembrano. Molti uomini hanno più successo romanticamente a quaranta che a venti o venticinque; la fama, il denaro e, soprattutto, il potere fungono da esaltatori sessuali. (Una donna che ha ottenuto un ruolo prestigioso in una professione competitiva o in una carriera aziendale è invece considerata meno desiderabile, non più desiderabile. La maggior parte degli uomini si confessa intimidito o non attratto sessualmente da una tale donna, perché è ovvio che gli risulta più difficile trattarla unicamente come un oggetto sessuale).
Con l’età, gli uomini possono iniziare a sentirsi ansiosi per le prestazioni sessuali, preoccupandosi di una perdita del vigore sessuale o, addirittura, dell’impotenza, ma la loro idoneità sessuale non risulta ridotta semplicemente perché invecchiano: gli uomini rimangono sessualmente appetibili finché sono in grado fare l’amore.
Le donne si trovano invece in una situazione di svantaggio, perché la loro candidatura sessuale dipende dal soddisfacimento di alcune “condizioni”, molto più severe, legate all’aspetto e all’età. Dal momento che si pensa che le donne abbiano vite sessuali molto più limitate degli uomini, una donna che non si è mai sposata viene compatita. Non la si considera accettabile, e si suppone che la sua vita continui a confermare la sua inaccettabilità. La sua presunta mancanza di opportunità sessuale è imbarazzante.
Un uomo che rimane scapolo è giudicato con meno crudeltà. Si presume che egli, a qualsiasi età, abbia ancora una vita sessuale — o quantomeno la possibilità di averne una. Per gli uomini non c’è destino equivalente alla condizione umiliante di essere una vecchia zitella. “Signore”, l’appellativo che copre gli anni che vanno dalla prima età adulta alla senilità, esenta gli uomini dallo stigma che si appiccica a qualsiasi donna, non più giovane, che è ancora “Signorina”.
(E il fatto che le donne siano divise in “Signorine” e “Signore”, richiama l’attenzione incessante sulla situazione di ogni donna rispetto al matrimonio, e riflette la convinzione che essere single o sposate sia molto più decisivo per una donna che per un uomo.)
Per una donna che non è più molto giovane, esiste certamente un certo sollievo quando riesce a sposarsi. Il matrimonio lenisce l’acuto dolore che prova verso gli anni che passano.
Ma la sua ansia non si placa mai completamente, perché sa che se dovesse rientrare nel mercato sessuale in una data successiva (a causa del divorzio, o della morte del marito, o per il bisogno di avventura erotica) deve farlo sottostando a una mancanza di gran lunga superiore a qualsiasi uomo della sua età (qualunque sia la sua età) e indipendentemente da quanto sia bella. I suoi successi, se ha una carriera, non costituiscono una risorsa.
Il calendario è dunque l’arbitro finale. A essere onesti, il calendario è soggetto ad alcune variazioni, da paese a paese. In Spagna, Portogallo, e nei paesi dell’America Latina, l’età in cui la maggior parte delle donne sono considerate fisicamente indesiderabili è più bassa che negli Stati Uniti. In Francia è un po’ più alta. Le convenzioni francesi sull’attrazione sessuale trovano un posto quasi ufficiale per la donna tra i trentacinque e quarantacinque anni. Il suo ruolo è quello di iniziare un giovane timido e senza esperienze, dopodiché viene (ovviamente!) sostituita da una ragazza più giovane.
(Il Romanzo di Colette, Cheri, è il racconto più noto di una storia d’amore di questo tipo; le biografie di Balzac ne costituiscono invece un esempio ben documentato, calato nella vita reale.)
Questo mito della sfera sessuale rende il compiere quarant’anni un po’ più facile per le francesi. Ma non c’è differenza, in nessuno di questi paesi, negli atteggiamenti di base che squalificano sessualmente le donne molto prima che gli uomini. L’invecchiamento varia anche a seconda della classe sociale. Le persone povere sembrano invecchiare molto prima nella loro vita rispetto ai ricchi. Ma l’ansia per l’invecchiamento è certamente più comune, e più acuta, nella classe media e tra le donne ricche più che tra le donne della classe operaia.
Le donne economicamente svantaggiate in questa società sono più rassegnate all’invecchiamento: non possono permettersi di combattere la battaglia cosmetica così a lungo o così tenacemente. In effetti, niente indica così chiaramente la natura fittizia di questa crisi, se non il fatto che le donne che mantengono il loro aspetto giovanile sono le donne più longeve, che conducono vite protette e prive di fatiche, che mangiano pasti equilibrati, che possono permettersi buone cure mediche, che non hanno figli o ne hanno pochi— queste sono coloro che sentono in maniera più acuta la sconfitta dell’età. L’invecchiamento è più un giudizio sociale che un’eventualità biologica.
Molto più persistente del duro senso di perdita subìto durante la menopausa (che, con una maggiore longevità, tende a verificarsi sempre più in là) è la depressione che accompagna l’invecchiamento, che non può essere innescata da qualsiasi evento reale nella vita di una donna, ma è uno stato ricorrente di colonizzazione della sua immaginazione, orchestrata dalla società, o meglio: da come quest’ultima limita il modo in cui le donne si sentono libere di immaginarsi.
Un resoconto modello sulla crisi dell’invecchiamento si trova nell’opera sentimental-ironica di Richard Strauss, Der Rosenkavalier, la cui eroina è una donna sposata ricca e glamour che decide di rinunciare al romanticismo. Dopo una notte con il suo giovane amante adorante, Marschallin ha un improvviso e inaspettato confronto con se stessa. È verso la fine dell’Atto I; Ottaviano se n’è appena andato. Sola, nella sua camera da letto si siede alla sua toletta, come fa ogni mattina. È il rituale quotidiano di autovalutazione praticato da ogni donna. Si guarda e, sconvolta, comincia a piangere. La sua giovinezza è finita.
Da notare che Marschallin non scopre, guardandosi allo specchio, di essere diventata brutta. È bella come sempre. La scoperta di Marschallin è morale, cioè è una scoperta della sua immaginazione; non è nulla che lei veda realmente. Tuttavia, la sua scoperta non è meno devastante. Coraggiosamente, prende una decisione dolorosa. Farà in modo che il suo amato Ottaviano si innamori di una ragazza della sua età. Deve essere realistica. Non è più desiderabile. Ora è “la vecchia Marschallin”.
Strauss scrisse l’opera nel 1910. I frequentatori dell’opera contemporanea restano scioccati leggendo sul libretto che Marschallin ha trentaquattro anni; oggi il ruolo è generalmente cantato da un soprano di ben quarant’anni o di cinquant’anni.
Se fosse inscenato da un’attraente cantante di trentaquattro anni, il dolore di Marschallin sembrerebbe semplicemente nevrotico, o addirittura ridicolo. Poche donne oggi si considerano vecchie e totalmente squalificate dal romanticismo a trentaquattro anni. L’età di pensionamento è aumentata, in linea con il forte aumento della speranza di vita per tutti nelle ultime generazioni, ma il modo in cui le donne vivono la loro vita rimane invariato: si avvicina inesorabilmente il momento in cui devono rassegnarsi a essere “troppo vecchie”. E quel momento è invariabilmente e oggettivamente prematuro. E nelle generazioni precedenti la rinuncia è arrivata ancora prima. Cinquant’anni fa una donna di quarant’anni non era solo “invecchiata” ma: vecchia, finita. Non era possibile opporsi. Oggi, la resa all’invecchiamento non ha più una data fissa. La crisi dell’invecchiamento (mi riferisco solo alle donne nei paesi ricchi) inizia prima ma dura più a lungo; e si dissemina nella maggior parte della vita di una donna.
Una donna non deve necessariamente essere vicina a un aspetto che sarebbe ragionevolmente considerato vecchio per preoccuparsi della sua età e iniziare a mentire (o essere tentata di mentire). Le crisi possono arrivare in qualsiasi momento. Il loro tempismo dipende da una miscela delle nevrosi delle vulnerabilità personali e dell’oscillazione dei costumi sociali. Alcune donne non vivono la loro prima crisi fino a trenta. Ma nessuna sfugge al nauseante shock di aver compiuto quaranta anni. Ogni compleanno, soprattutto quelli che inaugurano un nuovo decennio — e infatti le cifre tonde detengono un’autorità speciale — è percepito come una nuova sconfitta. C’è tanto dolore nell’attesa quanto, forse, nella realtà.
I ventinove anni sono diventati un’età scomoda da quando la fine ufficiale della gioventù si è strascicata fino ai trenta, circa una generazione fa. Anche avere trentanove anni è difficile; un anno intero in cui meditare con cupo stupore che si sta sulla soglia della mezza età. I confini sono arbitrari, ma non per questo meno vividi. Anche se una donna al suo quarantesimo compleanno non è molto diversa da quella che era quando aveva ancora trentanove anni, il giorno sembra un punto di svolta. Molto prima di diventare effettivamente una donna di quarant’anni, si è infatti preparata alla depressione imminente.
Una delle più grandi tragedie della vita di ogni donna consiste semplicemente nell’invecchiare. Si tratta certamente della tragedia più estesa nel tempo: l’invecchiamento è un destino mutevole. È una crisi che non si esaurisce mai, perché l’ansia non si esaurisce mai. Essendo una crisi dell’immaginazione piuttosto che della “vita reale”, ha l’abitudine di ripetersi sempre di più. Il territorio del processo dell’invecchiamento (in contrasto con la vecchiaia reale) non ha confini fissi. Fino a un certo punto, può essere definito individualmente.
E di decade in decade — dopo aver assorbito lo shock iniziale — un disperato impulso di sopravvivenza aiuta molte donne ad allargare i propri confini fino al decennio successivo. Nella tarda adolescenza, già i trent’anni sembrano la fine della vita. A trent’anni si pensa che siano i quaranta. A quarant’anni ci si concede ancora altri dieci anni. Ricordo la mia più cara amica al college singhiozzare il giorno in cui ha compiuto ventun anni. “La parte migliore della mia vita è finita. Non sono più giovane”. Era prossima alla laurea. Io ero una matricola precoce, avevo solo sedici anni. Disorientata, cercavo debolmente di confortarla, dicendo che non pensavo che a ventun anni fosse così vecchia. In realtà, non capivo affatto cosa ci potesse essere di così demoralizzante nel compiere ventuno anni. Per me significava solo qualcosa di bello: essere responsabili di sé stessi, essere liberi. A sedici anni, ero troppo giovane per notare, e per questo ero confusa, la maniera ambivalente in cui questa società esige che si smetta di pensare a sé stesse come una ragazza e si inizi a pensare a sé stesse come una donna. (In America questa esperienza si può ora rimandare ai trent’anni, ma anche oltre.)
Ma anche se pensavo che la sua angoscia fosse assurda, ero consapevole che non sarebbe stato semplicemente assurdo, ma del tutto impensabile in un ragazzo che compiva ventun anni. Solo le donne si preoccupano dell’età con quel grado di insensatezza e angoscia. E naturalmente, come con tutte le crisi che sono inautentiche e quindi si ripetono compulsivamente (perché il pericolo è in gran parte fittizio, un veleno dell’immaginazione), questa mia amica ha continuato ad avere la stessa crisi più e più volte, ogni volta come la prima. Sono andata poi alla festa per il suo trentesimo compleanno. Reduce da molte relazioni amorose, aveva trascorso la maggior parte dei suoi vent’anni all’estero ed era appena tornata negli Stati Uniti.
Era bella quando l’avevo conosciuta per la prima volta; adesso era bellissima. L’ho presa in giro per le lacrime che aveva versato quando aveva ventun anni. Scoppiò a ridere e disse che non se le ricordava. Ma trent’anni, ha detto poi mestamente, questa è davvero la fine. Poco dopo si è sposata. La mia amica ora ha quarantaquattro anni. Sebbene non sia più ciò che le persone chiamano “bellezza”, è affascinante e vitale. Insegna alla scuola elementare; suo marito, che ha vent’anni più di lei, è un marinaio di navi mercantili. Hanno un figlio, che ora ha nove anni. A volte, quando suo marito è via, si prende un amante. Mi ha detto di recente che i quarant’anni sono stati il compleanno più sconvolgente di tutti (io non ero presente), e sebbene le siano rimasti solo pochi anni, intende goderseli finché durano. È diventata una di quelle donne che afferrano ogni scusa nelle conversazioni per menzionare quanti anni hanno veramente, in uno spirito di spavalderia unito all’autocommiserazione, che non è in fondo troppo diverso dall’atteggiamento delle donne che mentono sulla loro età.
Ma in realtà si preoccupa molto meno dell’invecchiamento rispetto a due decenni fa. Avere un figlio, e averne uno piuttosto tardi, oltre i trent’anni, l’ha certamente aiutata a riconciliarsi con la sua età. A cinquant’anni, sospetto, rinvierà sempre più orgogliosamente l’età delle dimissioni. La mia amica è una delle vittime più fortunate e solide della crisi dell’invecchiamento. La maggior parte delle donne non è così vivace, né così innocentemente comica nella sua sofferenza. Ma quasi tutte le donne sopportano una qualche versione di questa sofferenza: una ricorrente crisi dell’immaginazione che di solito inizia da molto giovani, in cui si proiettano in un calcolo di perdita. Le leggi di questa società sono crudeli con le donne. Allevate per non essere mai completamente adulte, le donne sono considerate vecchie prima degli uomini. In effetti, la maggior parte delle donne non diventa relativamente libera e vivace sessualmente fino ai trent’anni.
(Le donne maturano sessualmente tardi, certamente molto più tardi degli uomini, non per ragioni biologiche innate ma perché la nostra cultura ritarda questo sviluppo nelle donne. Ostacolate nel poter sfogare la propria libido come gli uomini, molte donne impiegano tanto tempo per superare le loro inibizioni). Il momento in cui cominciano a non essere più considerate sessualmente attraenti coincide col raggiungimento della piena maturità sessuale. Il doppio standard sull’invecchiamento imbroglia le donne su quest’età, tra i trentacinque e i cinquant’anni, che è probabilmente il migliore della loro vita sessuale. Il fatto che le donne si aspettino di essere spesso lusingate dagli uomini, e la misura in cui la loro autostima dipende da questa adulazione, riflette quanto profondamente le donne siano psicologicamente indebolite dal doppio standard.
Alla pressione di sembrare giovani il più a lungo possibile, sentita da tutti in questa società, si aggiungono i valori della “femminilità”, che identificano specificamente l’attrattiva sessuale delle donne con la giovinezza. Il desiderio di avere “l’età giusta” ha un’urgenza speciale per una donna, mai per un uomo. Una parte ingente della sua autostima e del suo piacere nella vita è minacciata quando smette di essere giovane. La maggior parte degli uomini sperimenta l’invecchiamento con rimpianto e apprensione. Ma la maggior parte delle donne lo sperimenta ancora più dolorosamente: lo sperimenta con vergogna.
Invecchiare è il destino di un uomo, qualcosa che deve accadere perché è un essere umano. Per una donna, l’invecchiamento non è solo il suo destino. Lei è quel tipo di essere umano definito in modo più ristretto, una donna: questa è la sua vulnerabilità. Essere una donna significa essere un’attrice. La femminilità è una specie di teatro, con i suoi costumi, decorazioni, luci e gesti stilizzati. Fin dalla prima infanzia, le ragazze sono educate a prendersi cura in modo patologicamente esagerato del proprio aspetto e sono profondamente dilaniate (al punto da essere inadatte alla prima età adulta) dall’entità dello stress che subiscono nel presentarsi costantemente come oggetti del desiderio.
Le donne si specchiano più spesso degli uomini. È, virtualmente, loro dovere guardare sé stesse, specchiarsi con frequenza. In effetti, una donna che non è vanitosa è considerata non femminile. E una donna che passa letteralmente tutto il suo tempo a preoccuparsi di sé o a fare acquisti per apparire, non è considerata in questa società per ciò che è: una sorta di idiota morale. Una donna tale si ritiene normale, ed anzi è invidiata da altre donne il cui tempo è per lo più esaurito dal lavoro o dalla cura di famiglie numerose. Questo sfoggio di narcisismo va avanti costantemente. Ci si aspetta che le donne scompaiano più volte in una sera — al ristorante, a una festa, durante un intervallo a teatro, nel corso di un appuntamento — semplicemente per controllare il proprio aspetto, per assicurarsi che nulla sia andato storto con make-up e acconciatura, per verificare che i vestiti non siano macchiati o troppo stropicciati o non appesi correttamente. È accettabile svolgere questa attività in pubblico. Al tavolo di un ristorante, davanti a un caffè, una donna apre lo specchietto e si ritocca trucco e capelli senza alcun imbarazzo davanti al marito o ai suoi amici.
Questo comportamento, presentato come normale “vanità” nelle donne, sembrerebbe ridicolo in un uomo. Le donne sono più vanitose degli uomini a causa dell’incessante pressione che subiscono per mantenere il loro aspetto a uno standard elevato. Ciò che rende tale pressione ancora più gravosa è il fatto che ci siano in realtà diversi standard. Gli uomini si mostrano nella totalità fisica. Le donne, a differenza degli uomini, sono divise in un corpo e un viso— ciascuno dei quali giudicato secondo un preciso standard. Ciò che è importante per il viso è che sia bello. Per il corpo sono importanti due cose, che potrebbero persino essere incompatibili tra loro (dipende dalla moda e dal gusto): in primo luogo, che sia desiderabile, poi, che sia bello. Di solito, gli uomini sono attratti sessualmente dalle donne più per il loro corpo che per il loro viso. I tratti che suscitano desiderio — come le curve — non sempre sono equivalenti a quelli decretati “belli” dallo standard. (Per esempio, il corpo ideale di una donna secondo la pubblicità è estremamente magro: quel genere di corpo che risulta più desiderabile vestito che nudo).
Ma la preoccupazione delle donne per il loro aspetto non è orientata solo a suscitare il desiderio maschile. Mira anche a costruire una certa immagine per cui, in una maniera indiretta di suscitare desiderio, le donne affermano il proprio valore. Il valore di una donna risiede nel modo in cui rappresenta se stessa, cioè molto più del suo viso e del suo corpo.
In sfida alle leggi della semplice attrazione sessuale, le donne non dedicano la maggior parte della loro attenzione al corpo. Il ben noto narcisismo “ordinario” che le donne mostrano — il tempo che trascorrono davanti allo specchio — è volto a prendersi cura del proprio volto e dei capelli. Le donne non hanno semplicemente delle facce, come gli uomini, sono identificate dalle loro facce.
Gli uomini hanno un rapporto naturale con il proprio volto. Sicuramente si preoccupano del loro aspetto. Soffrono l’acne, le orecchie a sventola, gli occhi piccoli, detestano la calvizie. Ma c’è una distanza molto ampia tra ciò che è esteticamente accettabile nel viso di un uomo e in quello di una donna. La faccia di un uomo è qualcosa che semplicemente non ha bisogno di accorgimenti: tutto ciò che deve fare è mantenerla pulita. Può avvalersi degli ornamenti forniti dalla natura: la barba, i baffi, i capelli più o meno lunghi. Ma non ci si aspetta alcun camuffamento. Mostra quello che è veramente. Un uomo vive attraverso la sua faccia, registra tutte le fasi della sua vita. Dal momento che non modifica il suo viso, esso non è separato, bensì completato dal suo corpo; che è giudicato attraente in base all’impressione che dà di virilità ed energia.
Al contrario, la faccia di una donna è potenzialmente separata dal suo corpo. Non la tratta in maniera naturale. Il volto di una donna è come una tela su cui dipingere un ritratto corretto e perfezionato di sé. Una delle regole di questa creazione è che la faccia non mostra ciò che la donna non vuole che mostri. Il suo volto è un emblema, una bandiera, un’icona. Come si acconcia i capelli, il tipo di make-up che usa, l’uniformità del suo incarnato: questi sono tutti “segni”, non di quello che è “realmente”, ma di come chiede di essere trattata dagli altri, specie dagli uomini. Questi segni stabiliscono il suo status come “oggetto”.
Per i normali cambiamenti che l’età iscrive in qualsiasi volto umano, le donne sono penalizzate più pesantemente degli uomini. Persino nella prima adolescenza, le ragazze vengono invitate a proteggere il proprio volto dal “deterioramento”. Le madri avvertono le figlie (ma mai i figli): sei brutta quando piangi. Piangere, corrucciarsi, strizzare gli occhi — persino ridere — tutte queste attività umane fanno venire le rughe. Lo stesso utilizzo della faccia negli uomini è giudicato positivamente.
Le rughe di un uomo sono considerate segni di “personalità”. Indicano forza emotiva, maturità — qualità ben più apprezzate in un uomo che in una donna. (Mostrano che “ha vissuto”). Persino le cicatrici non sono considerate così spiacevoli, possono aggiungere “carattere” al volto di un uomo. Ma le rughe, le cicatrici, un piccolo segno sulla faccia di una donna, vengono considerati come difetti terribili.
In effetti, le persone considerano il carattere in un uomo in maniera diversa da quello di una donna. Il carattere di una donna è pensato per essere innato, statico — non il prodotto della sua esperienza, dei suoi anni e delle sue azioni. Il volto di una donna è apprezzato fintanto che rimane inalterato dalle sue emozioni (o comunque, non ne mostra traccia), dai suoi rischi fisici. Idealmente, dovrebbe essere come una maschera: immutabile, senza segni. Il viso della donna modello è quello di Garbo.
Poiché le donne sono identificate dalle loro facce più degli uomini, e l’ideale del volto femminile è quello “perfetto”, è una disgrazia quando una donna ha un incidente che la sfigura. Un naso rotto, una cicatrice o un segno di bruciatura, per un uomo è poco più che spiacevole, per una donna è una terribile ferita psicologica, che oggettivamente diminuisce il suo valore. (Com’è noto, la maggior parte delle clienti di chirurgia plastica sono donne).
Entrambi i sessi aspirano a un ideale fisico, ma cosa ci si aspetta dagli uomini e cosa dalle donne comporta una relazione morale molto diversa con il sé. I ragazzi vengono incoraggiati a potenziare il proprio corpo, a considerarlo come uno strumento da migliorare. Inventano la loro mascolinità soprattutto attraverso l’esercizio e lo sport, che induriscono il fisico e rafforzano la competizione; mentre gli abiti sono di solo secondario aiuto nella realizzazione di un corpo attraente.
Le ragazze non sono particolarmente incoraggiate a potenziare il loro corpo attraverso qualsiasi attività, faticosa o meno; difficilmente in loro vengono valorizzate la forza fisica e la resistenza. L’invenzione del sé femminile procede principalmente attraverso gli indumenti e altri segni che testimoniano lo sforzo stesso delle ragazze per sembrare attraenti, il loro impegno a compiacere.
Quando i ragazzi diventano uomini, vanno avanti (soprattutto se impiegati in lavori sedentari) a praticare uno sport o comunque a fare esercizio. La maggior parte si disinteressa al proprio aspetto, essendo stata addestrata ad accettare, più o meno, ciò che gli ha dato la natura. (Gli uomini possono ricominciare a fare esercizi intorno ai quarant’anni per perdere peso, per motivi di salute — c’è una diffusa paura di attacchi di cuore tra le persone di mezza età nei paesi ricchi — non lo fanno per ragioni estetiche). Una delle norme di “femminilità” in questa società è proprio preoccuparsi del proprio aspetto fisico, mentre “mascolinità” significa non preoccuparsi affatto del proprio aspetto.
Questa società consente agli uomini di avere una relazione molto più positiva col corpo rispetto alle donne. Gli uomini sono più “a casa” nei loro corpi, sia che li usino in maniera disinvolta o, viceversa, aggressiva. Il corpo di un uomo è definito come un corpo forte. Non contiene contraddizioni tra ciò che viene percepito come attraente e ciò che è pratico. Il corpo di una donna, per quanto sia considerato attraente, è definito come un corpo fragile e leggero. (Di conseguenza, le donne sono più angosciate degli uomini sull’essere in sovrappeso.) Quando fanno esercizio, le donne evitano quelli che sviluppano i muscoli, in particolare nella parte superiore delle braccia. Essere “femminile” significa apparire fisicamente debole, fragile.
Perciò, il corpo della donna ideale è quello che non ha grande utilità pratica per il duro lavoro di questo mondo, un corpo che deve essere costantemente “difeso”. Le donne non potenziano i loro corpi, come fanno gli uomini. Dopo che il fisico di una donna ha raggiunto la sua forma sessualmente accettabile nella tarda adolescenza, ulteriori sviluppi sono visti come negativi. Si stima irresponsabile per le donne ciò che è normale per gli uomini: semplicemente disinteressarsi del proprio aspetto. Durante l’adolescenza è probabile che si avvicinino all’immagine ideale — figura snella, pelle liscia e soda, muscolatura leggera, movimenti aggraziati. Il loro compito è cercare di mantenere invariata quell’immagine, il più a lungo possibile. Non bisogna mutarsi. Le donne si prendono cura del proprio corpo, contro ruvidezza e ingrassamento. Conservano il proprio corpo. (Forse il fatto che le donne nelle società moderne tendano ad avere una mentalità politica più conservatrice rispetto agli uomini ha origine nel loro rapporto profondamente conservatore con il proprio corpo).
Nella vita delle donne in questa società il periodo dell’orgoglio, della naturale onestà, di fioritura inconsapevole è breve. Una volta passato le giovani donne vengono condannate a re-inventarsi (e mantenersi) contro le incursioni dell’età. La maggior parte delle qualità fisiche considerate attraenti nelle donne si deteriora molto prima nella vita rispetto a quelle definite da “maschio”. Anzi, muoiono abbastanza presto nella normale sequenza di trasformazione del corpo. Il “femminile” è liscio, rotondo, glabro, morbido e senza muscoli: l’aspetto dei giovanissimi; le caratteristiche dei deboli, dei vulnerabili; i tratti dell’eunuco, come ha sottolineato Germaine Greer.
In realtà ci sono solo pochi anni — tarda adolescenza, i primi vent’anni — in cui questo aspetto è fisiologicamente naturale, senza necessità di ritocchi e accorgimenti. Dopodiché, le donne si arruolano in un’impresa donchisciottesca, cercando di richiudere il divario tra le immagini avanzate dalla società (riguardo a ciò che è attraente in una donna) e la naturale evoluzione della realtà. Le donne vivono un rapporto più intimo con la vecchiaia rispetto agli uomini, semplicemente perché una delle accettate occupazioni delle “donne” consiste proprio nello sforzo di nascondere da viso e corpo i segni dell’invecchiamento.
La validità sessuale delle donne dipende, fino a un certo punto, da quanto bene si distinguono da questi cambiamenti naturali. Dopo la tarda adolescenza le donne diventano le custodi dei loro corpi e volti, perseguendo una strategia essenzialmente difensiva, un’operazione di mantenimento. Una vasta gamma di prodotti in barattoli e tubetti, filiale della chirurgia, ed eserciti di parrucchieri, massaggiatrici, dietisti e altri professionisti esistono per evitare, o mascherare, sviluppi che sono biologicamente del tutto normali.
Le donne indirizzano grande energia verso questo sforzo appassionato di sconfiggere la natura: conservare un aspetto ideale e statico contro progresso dell’età. Il fallimento del progetto è solo questione di tempo. Inevitabilmente, l’aspetto fisico di una donna si sviluppa oltre la sua forma giovanile. Non importa quanto esotiche siano le creme o rigorose le diete, non si può mantenere per sempre il viso liscio o la vita sottile. Rimanere incinte ha il suo prezzo: il busto diventa più spesso; la pelle più distesa.
Non c’è modo di evitare le linee d’espressione, a partire dai venticinque anni, intorno agli occhi e alla bocca. Dalla trentina in poi, la pelle perde gradualmente il suo tono. Nelle donne questo processo perfettamente naturale è considerato una sconfitta umiliante, mentre nessuno trova qualcosa di così poco attraente nell’equivalente cambiamento fisico degli uomini.
Agli uomini è consentito sembrare più vecchi, senza che ciò comporti una penalizzazione sessuale. Quindi, il motivo per cui le donne invecchiano con più sofferenza degli uomini non dipende semplicemente che a loro importa del proprio aspetto più che agli uomini. Anche gli uomini si interessano della propria immagine e vogliono essere attraenti, ma poiché l’attività degli uomini è principalmente essere e fare, piuttosto che apparire, gli standard per il loro aspetto sono molto meno esigenti. Gli standard per ciò che è attraente negli uomini sono permissivi; si conformano a ciò che è possibile o “naturale” per la maggior parte degli uomini nel corso della loro vita.
Gli standard per l’aspetto delle donne vanno contro natura e avvicinarsi ad essi richiede tempo e impegno considerevoli. Le donne devono provare ad essere belle. O quantomeno, sotto forte pressione sociale, devono tentare di non essere brutte. Le fortune di una donna dipendono, molto più di quelle di un uomo, su un aspetto almeno “accettabile”.
Gli uomini non sono soggetti a questa pressione. Una bella presenza in un uomo è un bonus, non una necessità psicologica per mantenere una normale autostima. Dietro al fatto che le donne siano più gravemente penalizzate degli uomini per l’invecchiamento c’è che le persone, nella nostra cultura, sono semplicemente meno tolleranti alla bruttezza nelle donne che negli uomini. Una donna brutta non è mai semplicemente ripugnante. La bruttezza in una donna è percepita da tutti, uomini e donne, come vagamente imbarazzante.
E molti segni o macchie che contano come brutte sul viso di una donna sarebbero abbastanza tollerabili sul volto di un uomo. Non è, insisto, solo perché gli standard estetici per uomini e donne sono diversi. È piuttosto perché gli standard estetici per le donne sono molto più alti, e più rigorosi, rispetto a quelle proposti per gli uomini.
La bellezza, l’attività delle donne in questa società, è il teatro della loro schiavitù. Solo uno standard di bellezza femminile è autorizzato: la ragazza. Il grande vantaggio degli uomini è che la nostra cultura consente due standard di bellezza maschile: il ragazzo e l’uomo. La bellezza di un ragazzo assomiglia alla bellezza di una ragazza. In entrambi i sessi è un tipo fragile di bellezza e fiorisce naturalmente solo nella prima parte del ciclo di vita.
Fortunatamente, gli uomini sono in grado di accettare se stessi sotto un altro standard di bell’aspetto — più pesante, più ruvido, più robusto. Un uomo non si addolora quando perde la pelle liscia, glabra e senza peli del ragazzo. Perché scambia solo uno forma di attrazione per un’altra: la pelle più scura del viso di un uomo, ruvida dalla rasatura quotidiana, che mostra i segni d’espressione e le normali rughe dell’età. Non c’è equivalente di questo secondo standard per le donne. L’unico standard di bellezza per le donne impone che debbano continuare ad avere una pelle perfetta. Ogni ruga, ogni linea, ogni capello grigio è una sconfitta. Non c’è da stupirsi che nessun ragazzo si preoccupi di diventare un uomo, mentre persino il passaggio dall’adolescenza alla prima gioventù è vissuto da molte donne come la loro rovina, perché ogni donna è indotta a voler sembrare sempre una ragazza.
Questo non vuol dire che non ci siano belle donne anziane. Ma lo standard della bellezza in una donna di qualsiasi età è quanto riesca a mantenere, o a simulare, l’aspetto della giovinezza. L’eccezionale donna sulla sessantina che è ancora bella ha sicuramente un grosso debito con i suoi geni. L’invecchiamento ritardato, come il bell’aspetto, tende a trasmettersi in famiglia. Ma la natura raramente offre abbastanza per far fronte a questi standard della cultura.
La maggior parte delle donne che ritardano con successo l’aspetto della propria età sono ricche, con tempo libero illimitato da dedicare al nutrimento dei propri doni naturali. Spesso sono attrici. (Cioè, professioniste altamente retribuite per fare ciò che a tutte le donne viene insegnato a praticare in maniera dilettante.) Donne come Mae West, Dietrich, Stella Adler, Dolores Del Rio, non sfidano la regola sulla relazione tra bellezza ed età nelle donne. Vengono ammirate proprio perché sono eccezioni, perché sono riuscite (o almeno così sembra in fotografia) a superare in astuzia la natura.
In quanto miracoli, eccezioni fatte dalla natura (con l’aiuto dell’arte e del privilegio sociale), confermano solo la regola, perché ciò che ci fa sembrare belle queste donne è proprio il fatto che non dimostrano la loro vera età. La società non ammette nella nostra immaginazione una bella donna anziana che sembri anziana, una donna che potrebbe essere come Picasso a novant’anni, fotografato all’aperto nella sua tenuta nel sud della Francia, indossando solo pantaloncini e sandali. Nessuno immagina che una tale donna esista. Anche le eccezioni speciali — Mae West & Co. — sono sempre fotografate al chiuso, in luoghi sapientemente illuminati, dall’angolo più lusinghiero e vestite abilmente. L’implicazione è che non reggerebbero a uno sguardo più ravvicinato.
L’idea che una vecchia in costume da bagno possa essere attraente, o anche solo avere un aspetto accettabile, è inconcepibile. Una donna anziana è, per definizione, sessualmente ripugnante, a meno che, in effetti, non sembri per nulla anziana. Il corpo di una vecchia, a differenza di quello di un vecchio, è sempre inteso come un corpo che non può più essere mostrato, offerto, svelato. Nella migliore delle ipotesi può apparire in costume. Le persone si sentono a disagio, pensando a quello che potrebbero vedere se le cadesse la maschera, se si togliesse i vestiti. Quindi, la motivazione per le donne a vestirsi, truccarsi, tingersi capelli, seguire diete drastiche e sottoporsi a lifting non è semplicemente essere attraenti. Sono modi per difendersi contro un profondo livello di disapprovazione rivolto loro, una disapprovazione che può assumere la forma dell’avversione.
Il doppio standard sull’invecchiamento converte la vita delle donne in un’inesorabile marcia verso una condizione in cui non sono solo poco attraenti, ma disgustose. Il profondo terrore della vita di una donna è il momento rappresentato nella statua di Rodin chiamata Vecchiaia: una vecchia donna nuda, seduta, che contempla tristemente il suo corpo fiacco e consumato.
L’invecchiamento nelle donne è un processo che le rende oscene sessualmente, perché il seno flaccido, il collo rugoso, le mani macchiate, il diradamento dei capelli bianchi e le gambe venate di una donna anziana sono considerati osceni.
Nei momenti peggiori della nostra immaginazione, questa trasformazione può avvenire con una velocità sconcertante, come nel finale di Lost Horizon, quando la bella ragazza è portata dal suo amante fuori da Shangri-La e, in pochi minuti, si trasforma in una vecchia avvizzita e ripugnante. Non esiste un incubo equivalente per gli uomini. Questo perché, per quanto un uomo possa preoccuparsi del suo aspetto, tale preoccupazione non potrebbe mai acquisire la stessa disperazione che è propria delle donne.
Quando gli uomini si vestono secondo la moda o fanno uso di cosmetici, non si aspettano da abiti e trucco lo stesso delle donne. Una lozione per il viso, un profumo o un deodorante, una lacca per capelli: usate da un uomo, non fanno parte di un travestimento. Gli uomini, in quanto uomini, non sentono la necessità di camuffarsi per difendersi da segni di invecchiamento moralmente disapprovati, di superare in astuzia l’obsolescenza sessuale prematura, di nascondere l’invecchiamento come oscenità. Gli uomini non sono soggetti alla malcelata repulsione che questa cultura esprime contro il corpo femminile, fatta eccezione per la sua forma giovane, liscia, soda, inodore, senza imperfezioni. Uno degli atteggiamenti che che si abbatte più gravemente le donne è l’orrore viscerale nei confronti dell’invecchiamento della pelle femminile. Esso rivela una paura radicale delle donne installata nelle fondamenta di questa cultura, una demonologia delle donne che si è cristallizzata in caricature mitiche come la vecchia megera, la virago e la strega.
Diversi secoli di terrore delle streghe, durante i quali è stato eseguito uno dei più cruenti programmi di sterminio nella storia occidentale, suggeriscono qualcosa dell’estremo di questa paura. Che le donne anziane siano ripugnanti è uno dei più profondi sentimenti estetici ed erotici nella nostra cultura. Le donne lo condividono tanto quanto gli uomini. (Gli oppressori, di regola, negano alle persone oppresse i propri standard di bellezza “nativi”. E gli oppressi finiscono per essere convinti di essere brutti.) Come le donne siano psicologicamente danneggiate da questa idea misogina di ciò che è bello può essere messo in comparazione al modo in cui i neri sono stati deformati in una società che definisce il bello come bianco.
Test psicologici effettuati su bambini neri negli Stati Uniti alcuni anni fa hanno mostrato quanto incorporino con rapidità e profondità lo standard bianco sulla bellezza estetica. I bambini hanno espresso fantasie che indicavano i neri come brutti, dall’aspetto ridicolo, sporco, rozzo. Un tipo simile di odio per se stesse infetta la maggior parte delle donne; e, come gli uomini, trovano la vecchiaia nelle donne più brutta che negli uomini. Questo tabù estetico funziona, negli atteggiamenti sessuali, come un tabù razziale. In questa società la maggior parte delle persone sente un involontario accapponarsi della pelle quando si immagina una donna di mezza età che fa l’amore con un giovane, esattamente come tanti bianchi sussultano visceralmente al pensiero di una donna bianca a letto con un uomo nero.
Il banale dramma di un cinquantenne che lascia la moglie di quarantacinque anni per la ragazza di ventotto non contiene un’indignazione strettamente sessuale, nonostante la simpatia per la moglie abbandonata. Anzi. Tutti “capiscono”. Tutti sanno che gli uomini apprezzano le ragazze, e che spesso le giovani desiderano uomini di mezza età. Ma nessuno “capisce” la situazione inversa. Una donna di quarantacinque anni che lascia un marito di cinquanta per un amante di ventotto è l’ingrediente di uno scandalo sociale e sessuale a un livello profondo di percezione. Nessuno prende per eccezione una coppia romantica in cui l’uomo ha vent’anni o più della donna. I film accoppiano Joanne Dru e John Wayne, Marilyn Monroe e Joseph Gotten, Audrey Hepburn e Gary Grant, Jane Fonda e Yves Montand, Catherine Deneuve e Marcello Mastroianni; come nella vita vera, si tratta di sono coppie perfettamente plausibili e attraenti.
Quando la differenza di età funziona invece all’inverso, le persone sono perplesse, imbarazzate e spesso scioccate. (Ricordate Joan Grawford e Cliff Robertson in Autumn Leaves? Ma è così disturbante questo tipo di relazione che raramente compare nei film, e quando appare è solo come malinconica storia di un fallimento.) La solita visione del perché si sposano una donna di quarant’anni e un ragazzo di vent’anni, o una donna di cinquant’anni e un uomo di trenta, è che l’uomo sta cercando una madre, non una moglie; nessuno crede che il matrimonio durerà. Invece una donna che risponda eroticamente e romanticamente a un uomo che, in termini di età, potrebbe essere suo padre, è considerato normale. Un uomo che si innamora di una donna che, per quanto attraente possa essere, è abbastanza grande da essere sua madre, lo si considera estremamente nevrotico (vittima di “fissazione edipica” è il termine di tendenza), se non leggermente spregevole.
Più ampio è il divario di età tra partner in una coppia, più ovvio è il pregiudizio contro le donne. Quando vecchi, come il giudice Douglas, Picasso, Strom Thurmond, Onassis, Chaplin e Pablo Casals, si prendono mogli di trenta, quaranta, cinquanta anni più giovani di loro, le persone pensano sia qualcosa di notevole, forse un’esagerazione, ma comunque plausibile. Per spiegare una tale coppia, la gente invidiosamente attribuisce una virilità e un fascino speciale all’uomo. Anche se può non essere bello, è famoso; e la sua celebrità è intesa come una spinta dell’attrattiva femminile. Le persone immaginano che la sua giovane moglie, rispettosa dei successi dell’anziano marito, sia felice di diventare la sua badante.
Per l’uomo un matrimonio tardo è sempre una buona relazione pubblica. Si aggiunge all’impressione che, nonostante la sua età avanzata, sia ancora da non sottovalutare; è il segno di una vitalità continua che si presume anche per la sua arte, attività imprenditoriale o carriera politica. Ma una donna anziana che ha sposato un giovane verrebbe accolta in modo diverso. Infrange un feroce tabù, e non merita alcun credito per il suo coraggio. Lungi dall’essere ammirata per la sua vitalità, è probabile che venga condannata come predatrice, egoista, esibizionista. Allo stesso tempo verrebbe compatita, dal momento che un tale matrimonio è la prova del suo rimbambimento.
Se ha avuto una carriera convenzionale o ricoperto una carica pubblica, soffrirebbe comunque di una rapida e tumultuosa disapprovazione. La sua stessa credibilità come professionista declinerebbe, poiché la gente potrebbe sospettare che il suo giovane marito possa avere un’influenza indebita su di lei. La sua “rispettabilità” sarebbe certamente compromessa. Anzi, le celebri anziane che hanno osato tali unioni, anche se solo alla fine della loro vita: George Eliot, Colette, Edith Piaf — appartengono tutte a quella categoria di persone, artisti creativi e intrattenitori, che hanno una licenza speciale dalla società per comportarsi in modo scandaloso.
Si crede che sia uno scandalo per una donna ignorare che è vecchia e, quindi, troppo brutta per un giovane. L’aspetto e la condizione fisica determinano la desiderabilità di una donna, non i suoi talenti o i suoi bisogni. Le donne non dovrebbero essere “potenti”. Un matrimonio tra un una vecchia e un giovane sovvertono la regola fondamentale dei rapporti tra i due sessi, cioè: qualsiasi sia l’apparenza, gli uomini rimangono dominanti. Le loro affermazioni vengono prima di tutto. Le donne dovrebbero essere le compagne degli uomini, mai pienamente eguali a loro — e mai a loro superiori. Le donne devono rimanere nello stato di una perenne “minorità”.
La convinzione che le mogli debbano essere più giovani dei loro mariti rinforza lo stato di “minorità” delle donne, perché essere più anziani porta con sé, in qualsiasi relazione, una certa quantità di potere e autorità. Certamente non c’è una regola in materia. Si obbedisce alla convenzione, perché agire altrimenti ci fa sentire come se stessimo facendo qualcosa di brutto o di cattivo gusto. Ognuno percepisce intuitivamente la correttezza estetica di un matrimonio in cui l’uomo è più vecchio della donna, il che significa che qualsiasi matrimonio nel quale la donna sia più anziana crea un’immagine mentale dubbia o meno gratificante. Ognuno è dipendente dal piacere visivo di una donna che ha i giusti standard estetici, dai quali gli uomini sono esentati: ciò impegna le donne nello sforzo di rimanere giovani, mentre gli uomini sono liberi di invecchiare. A un livello più profondo, tutti trovano i segni di vecchiaia nelle donne esteticamente offensivi; ciò condiziona a sentirsi automaticamente disgustati dalla prospettiva di un’anziana che sposa un giovane.
La situazione in cui le donne vengono tenute in stato di “minorità” per la vita è in gran parte organizzata da tali preferenze conformiste e irrazionali. Ma il gusto non è libero, e i suoi giudizi non sono mai semplicemente “naturali”. Le regole del gusto rinforzano le strutture di potere. La repulsione contro l’invecchiamento nelle donne è la punta di diamante di un insieme di strutture oppressive (spesso mascherate da galanteria) che servono a mantenere le donne al loro posto.
Lo stato ideale proposto per le donne è la docilità, che significa non essere pienamente cresciute. La maggior parte di ciò che è amato come tipicamente “femminile” è semplicemente un comportamento infantile, immaturo, debole. Offrire uno standard così basso e umiliante di realizzazione di sé e costituisce l’oppressione in una forma acuta, una sorta di neocolonialismo morale. Ma le donne non sono semplicemente trattate con sufficienza se possiedono quei valori che assicurano il dominio degli uomini. Sono ripudiate. Forse perché sono stati i loro oppressori a lungo, pochi uomini apprezzano davvero le donne (anche se amano singole donne), e pochi uomini si sentono davvero a proprio agio in compagnia delle donne.
Questo malessere nasce perché i rapporti tra i due sessi sono pieni di ipocrisia, poiché gli uomini si impegnano ad amare coloro che dominano e quindi non rispettano. Gli oppressori cercano sempre di giustificare i loro privilegi e le loro brutalità immaginando che coloro che opprimono appartengano a un ordine inferiore di civiltà o siano comunque meno pienamente “esseri umani”. Privati di parte della loro dignità umana, gli oppressi assumono certi tratti “demoniaci”. Le oppressioni di grandi gruppi devono ancorarsi in profondità nella psiche, continuamente rinnovate da paure e tabù parzialmente inconsci, da un senso di osceno.
Pertanto, le donne suscitano non solo desiderio e affetto negli uomini, ma anche avversione. Le donne sono attentamente addomesticate. Ma, certe volte e in certe situazioni, diventano estranee, intoccabili. L’avversione che gli uomini provano, molta della quale risulta nascosta, si sente più francamente, con meno inibizione, verso il tipo di donna che rappresenta il tabù estetico, la donna che è diventata, con i cambiamenti naturali causati dall’invecchiamento, oscena.
Niente dimostra più chiaramente la vulnerabilità delle donne che quel particolare dolore, quella confusione e tristezza che sperimentano invecchiando. E nella lotta che alcune donne stanno conducendo a nome di tutte le donne per essere trattate (e trattarsi) come esseri umani completi — non “solo” come donne — uno dei primi risultati che si spera ottenere è che le donne diventino consapevoli, e consapevolmente indignate, del doppio standard sull’invecchiamento di cui soffrono così duramente.
È comprensibile che le donne spesso soccombano alla tentazione di mentire sulla loro età. Dato il doppio standard della società, chiedere a una donna la sua età è spesso un’azione aggressiva, una trappola. Mentire è un mezzo elementare di autodifesa, un modo per sfuggire alla trappola, almeno temporaneamente. Aspettarsi che una donna, dopo “una certa età”, dica esattamente quanti anni ha — quando ne ha la possibilità, anche grazie alla generosità della natura o all’astuzia degli accorgimenti, di passare come più giovane di quanto non sia in realtà — è come aspettarsi che un proprietario terriero ammetta che la proprietà che ha messo in vendita in realtà vale meno di quanto l’acquirente sia disposto pagare.
Il doppio standard sull’invecchiamento pone le donne come proprietà, come oggetti il cui valore si deprezza rapidamente con la marcia del calendario. I pregiudizi che montano contro le donne non appena invecchiano sono un’arma importante del privilegio maschile. È l’attuale distribuzione ineguale di ruoli adulti tra i due sessi che dà agli uomini la libertà di invecchiare negata alle donne. Gli uomini amministrano attivamente il doppio standard sull’invecchiamento perché il ruolo “maschile” assegna loro l’iniziativa nel corteggiamento. Gli uomini scelgono; le donne sono scelte. Quindi gli uomini scelgono donne più giovani. Ma sebbene questo sistema di disuguaglianza sia gestito da uomini, non potrebbe funzionare se le donne stesse non acconsentissero. Le donne lo rafforzano con la loro compiacenza, con la loro angoscia, con le bugie.
Non solo le donne mentono più degli uomini circa la loro età, ma gli uomini le perdonano per questo, confermando così la propria superiorità. Si ritiene un uomo che mente sulla sua età un debole, “poco virile”. Una donna che mente sulla propria età invece si comporta in maniera abbastanza accettabile, “femminile”.
Una piccola bugia è considerata dagli uomini con indulgenza, una delle numerose concessioni paternalistiche fatte per le donne. Ha la stessa irrilevanza morale del fatto che le donne siano spesso in ritardo agli appuntamenti. Le donne non dovrebbero essere veritiere o puntuali, o esperte nella manipolazione e riparazione di macchine, o frugali, o fisicamente coraggiose. Ci si aspetta che siano adulti di seconda classe, il cui stato naturale è quello di grata dipendenza dagli uomini. E così spesso lo sono, poiché è quello che sono educate a essere. Finché le donne rispettano gli standard del comportamento “femminile”, non possono comportarsi come adulti completamente responsabili e indipendenti. La maggior parte delle donne condivide il disprezzo per le donne espresso nel doppio standard sull’invecchiamento, a tal punto danno per scontata la loro mancanza di rispetto per se stesse.
Le donne sono state abituate per tanto tempo alla protezione delle loro maschere, dei loro sorrisi, delle loro accattivanti bugie. Senza questa protezione, lo sanno, sarebbero più vulnerabili. Ma nel proteggersi come donne, si tradiscono da adulte. L’inganno esemplare nella vita di una donna: negare la propria età. Simbolicamente aderiscono a tutti quei miti che forniscono alle donne le loro insicurezze e i loro privilegi asfissianti, che creano la loro genuina oppressione, che ispirano il loro vero malcontento. Ogni volta che una donna mente sull’età diventa complice del proprio mancato sviluppo come essere umano.
Le donne hanno un’altra opzione. Possono aspirare a essere sagge, non semplicemente gentili; essere competenti, non solo d’aiuto; forti, non solo aggraziate; essere ambiziose per se stesse, non solo per se stesse in relazione a uomini e bambini. Possono lasciarsi invecchiare naturalmente e senza imbarazzo, protestando attivamente e disobbedendo alle convenzioni che derivano dal doppio standard di questa società sull’invecchiamento. Invece di essere ragazze, ragazze il più a lungo possibile, e poi invecchiare in modo umiliante nella mezza età e oscenamente nella vecchiaia, possono diventare donne molto prima e rimanere adulte attive, godendosi la lunga attività erotica di cui le donne sono capaci, molto più a lungo. Le donne dovrebbero permettere ai propri volti di mostrare le vite che hanno vissuto. Le donne dovrebbero dire la verità.